“La mia famiglia non ha mai avuto un processo per l’uccisione di mio padre, abbiamo ottenuto i riconoscimenti dello stato, senza avere giustizia e non posso tollerare che questi indefinibili possano avere riconoscimenti, addirittura dal tribunale dei diritti umani. Uomini vigliacchi che hanno tolto il diritto di vivere a tanti padri di famiglia . No, non posso accettarlo. Mio padre aveva 45 anni quando è stato ucciso e una moglie 4 figli da sfamare, é io ne avevo appena 12. Cosa dovrei chiedere io a questi giudici?”

Antonio Castelbuono ha lo stesso sguardo limpido e fiero di suo padre Salvatore. E’ un fiume in piena. Suo padre indossava con orgoglio la divisa da vigile urbano quando, il 26 settembre del 1978, cinque colpi di pistola lo costrinsero a dire addio ai suoi cari. Mentre era al volante della sua auto, cadde in un agguato mafioso a Bolognetta, il centro del palermitano dove viveva e dove aveva deciso di aiutare i carabinieri a scovare i latitanti corleonesi che si nascondevano in quei territori. Nonostante sia certa la responsabilità dei corleonesi, che hanno rivendicato l’ attentato con una telefonata anonima ai carabinieri: “Carabiniere, dica al comandante del nucleo investigativo che i suoi uomini hanno sfiorato da vicino l’uomo che cercavano. La banda che ha suonato per il vigile urbano suonerà pure per i carabinieri”, nessun tribunale giudicherà i responsabili dell’assassinio di Salvatore Castelbuono, Totò, così come si faceva chiamare da chi lo amava, da chi lo stimava.

Salvatore Castelbuono

Tutti lo chiamavano Totò; tutti tranne i corleonesi, che si inchinavano al loro Totò, quello cattivo, il Riina che stava preparando la seconda guerra di mafia per andare alla conquista di Palermo con Bernardo Provenzano, i due feroci reggenti della cosca di Corleone dopo l’arresto di Luciano Liggio. Riina, la belva sanguinaria, il futuro capo di Cosa Nostra, lo stragista che con il suo successore, il fedele Bernardo Provenzano soprannominato Binnu U Tratturi perché massacrava chiunque si opponesse loro, ucciderà o farà uccidere senza pietà mafiosi nemici, rappresentanti delle Forze dell’Ordine, delle Istituzioni, civili, uomini, donne, bambini.

Così come Flavia Famà e altri familiari di vittime della mafia che hanno manifestato la loro indignazione o le loro perplessità attraverso i media o i rispettivi profili social, e che da sempre sono in prima linea nella lotta per il rispetto della memoria e per la giustizia con associazioni così come la Libera di Don Ciotti, Antonio ha voluto dire la sua sulla sentenza della Corte di Strasburgo, che ha definito “inumano e degradante il trattamento riservato a Provenzano” perché mantenuto fino alla morte nel regime del 41bis in condizioni di salute considerate così gravi da non rendere più necessario il carcere duro.

“Quando ho saputo della condanna all’Italia ero meravigliato, incredulo. Non riuscivo a pensare che un tribunale dei diritti umani avesse potuto emanare una sentenza a favore di colui che per 60 anni ha commesso crimini contro l’umanità”

“Questi indefinibili – continua – per anni si sono fatti definire uomini di onore e non hanno avuto l’ ONORE di chiedere scusa a tutte quelle vittime di mafia, di consegnare i corpi cancellati dalla lupara bianca o più atroce, di indiare il luogo dove piangere quelli sciolti nell’acido senza curarsi se fossero bambini o adulti. Non ho mai avuto nessun rancore per questi indefinibili, noi non abbiamo chiesto vendette ma solo GIUSTIZIA E VERITÀ. Il nostro dolore lo abbiamo trasformato in lotta contro le mafie e in energia per sollecitare le coscienze della società civile, soprattutto quelle dei giovani”.

Il punto è che si ha costantemente l’angosciante percezione che quando si affronti la mafia, e la criminalità in genere, non si parta mai dalle vittime e da chi soffrirà per la loro scomparsa il resto dei giorni. Come se al danno si aggiungesse una crudele, inaccettabile beffa. Le vittime sepolte in fretta e coi fiori presto non più sostituiti, chi le piange lasciati sullo sfondo, buio, silenzioso, dove non è considerato necessario fare filtrare la luce, quasi dessero fastidio, come un pensiero molesto, come una colpa per la quale non ci si vuole assumere la responsabilità di realtà così come quella che Antonio Castelbuono ci rivela.

“Oggi si parla della mafia senza avere paura. 40 anni fa, quando è stato barbaramente ucciso mio padre, non era così. Non si parlava di mafia liberamente. Ho vissuto una infanzia difficile, ho vissuto due anni in un istituto lontano dalla famiglia e senza gli affetti più cari, anche se ogni settimana ritornavo a casa. Non riuscivo a parlavo di mio padre, la mafia aveva spento il mio Faro, colui che illuminava la mia strada e programmava il mio futuro”.

La famiglia Castelbuono in una foto scattata prima della nascita di Antonio, l’ultimo dei quattro figli del vigile ucciso dalla mafia

Dettagli drammatici che gettano pure ombre inquietanti: “Ho dovuto vivere nel silenzio, non potevo parlare di mio padre, perché le istituzioni avevano consigliato alla mia famiglia il silenzio. Noi, da subito abbiamo saputo il motivo perché venne ucciso, ma non doveva emergere che mio padre collaborava attivamente con il nucleo investigativo di Palermo con a capo il Maggiore Antonio Subranni, alla cattura del noto criminale e latitante Leoluca Bagarella“.

“Io, il più piccolo dei figli, appena dodicenne, volevo giustizia, volevo che mio padre fosse riconosciuto per quello che aveva fatto per lo Stato e che non cadesse nell’oblio – conclude Antonio Castelbuono – Noi familiari volevamo che il trascorrere del tempo non facesse dimenticare chi ha creduto nella giustizia e nella legalità. Adesso, finalmente, non si è costretti ad affrontare quel che io e la mia famiglia abbiamo subito grazie a Libera e alle numerose associazioni che aiutano i familiari a trovare la forza di uscire dalla prigione del silenzio” .

Antonio Castelbuono oggi, alla destra di Don Ciotti, coi fratelli e un nipote

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