Scrivo in prima persona. C’è ognuno di noi, di noi catanesi, massacrato in quell’esplosione.

Non è morto Agatino Giustino, in quella maledetta notte in cui ha deciso di allontanarsi dal respiro dolce, rassicurante, della sua Carlotta, la piccolina di 4 mesi che non vedrà più affacciarsi il suo giovane, giovanissimo papà sulla culla.

Sono morto anch’io. Siamo morti anche noi. Noi catanesi.

Noi catanesi che la nostra città sentiamo, viviamo, conosciamo.

Noi catanesi che sappiamo.

Sappiamo perché Agatino quella maledetta notte è andato con un complice a piazzare l’ordigno nel distributore automatico di sigarette, alle 4, mentre Carlotta dormiva e sognava gli ultimi baci ricevuti dal giovane, giovanissimo papà.

Noi catanesi lo sappiamo.

Librino è un ghetto. Così deve essere. E’ stato costruito colata di cemento dopo colata di cemento per quello scopo: essere un ghetto.

E nei ghetti hai due scelte: fuggire o restare. E se resti hai due scelte: scivolare o restare in piedi. Ma restare in piedi è un’impresa titanica.

Agatino è scivolato. Come molti prima di lui, come molti faranno dopo di lui. Aveva 19 anni. E’ scivolato. Come molti prima di lui, come molti faranno dopo di lui.

Non è scivolato perché era cattivo. Non voleva fare una strage, anche se ha rischiato di compierla per incuranza, perché non si nasce esperti di ordigni. Agatino è scivolato per poi dissolversi perché è nato e cresciuto a Librino. E Librino deve essere un dannato, dannatissimo ghetto. Perchè la dannata, dannatissima maniera di fare politica a Catania da sempre prevede che ci siano sacche di essere umani ammassati come bestiame lontano dal centro per sfruttarne ogni centimetro di pelle, di carne, di coscienza, di anima al momento di chiedere quei dannati, dannatissimi voti che si cibano di speranze, illusioni, bugie.

Nei ghetti si permette al forte di turno, al mafioso, di insegnare che si è spacchiosi delinquendo. Che lo Stato non esiste e quindi ecco la mano tesa della criminalità che ti corrompe, che ti risucchia, che ti vampirizza per farti diventare parte di essa.

Nei ghetti si lasciano i cittadini onesti, che sono molti, moltissimi, da soli nelle loro intime roccaforti.

Nei ghetti si abbandonano i giovani alla strada. E non è detto che ti salvi la famiglia di brave persone così come lo è quella di Agatino, padre e madre che hanno lavorato sodo per non fare mancare alcunché ai figli, perché nei ghetti è più facile che capiti di incontrare l’amico sbagliato, che ti suggerisce di fare la cosa sbagliata, al quale magari non riesci a dire di no, perché è un amico, perché hai 19 anni e a 19 anni ancora non hai ancora quell’armatura che ti protegge.

Perché quella che cerca di costruirti la famiglia non sempre basta.

Dovrebbe aiutarti lo Stato, la politica, quello che ti ha rubato il voto a renderla più spessa, non dormendo la notte per trovare le soluzioni che permettano ad un ghetto di non essere più tale.

A Librino non si permette ad una squadra di rugby che strappa i bambini dalla strada di avere un campo su cui giocare.

A Librino la sera non si accendono le luci nelle strade perché non si investe su quelle tecnologie che eviterebbero i furti di cavi.

A Librino non si puliscono le strade, non ti taglia la vegetazione che invade i marciapiedi, si lasciano gli anziani in desolate fermate degli autobus che non arrivano mai, i disabili restano intrappolati nei loro condomini e, anche se potessero, dove potrebbero andare? Non ci sono parchi, non ci sono centri ricreativi, nulla, nei ghetti non c’è nulla.

E il lavoro, ovunque, figuriamoci per chi viene dai ghetti con meno credenziali a disposizione, è una chimera, un ricatto, un miraggio, a Catania.

Rivedo me in Agatino mentre regge il biberon alla sua piccolina, mentre le sorride, mentre la bacia con tenerezza. Non era cattivo Agatino.

Io non sono nato in un ghetto. Lui sì.

Noi catanesi sappiamo perché è morto Agatino. Perché sono morto anch’io in quell’esplosione. Perché siamo morti anche noi che impotenti subiamo l’arroganza di chi impone i ghetti.

 

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