Lascia la sua Catania per il lavoro e trova un’epidemia. La storia di Giusy è quella di migliaia di altri siciliani che dopo averle tentate tutte prendono la decisione più dolorosa, allontanarsi dalla loro terra, dai loro affetti, per provare a ottenere quel che qui è più difficile conquistare: un posto di lavoro dignitoso, che non sia concessione, sfruttamento, investimento a fondo perduto.

E’ la storia di migliaia di siciliani che improvvisamente si sono trovati di fronte un altro ostacolo, inatteso, insormontabile: il panico. Quello provocato dalla diffusione del Coronavirus al Nord Italia. Giusy, 34 anni, è stata costretta a tornare indietro. Da Padova nuovamente a Catania, perché le scuole sono chiuse e lei si occupava di sostegno ai bambini diversamente abili.

La classe dove insegnava Giusy

“La situazione è degenerata da sabato scorso – ci racconta – dal contagio e la morte dell’ anziano di Vo’ Euganeo. E la cosa assurda è che in Veneto ancora non si ha la più pallida idea di quale sia il paziente zero. La migliore sanità d’Italia, a quanto diceva Salvini…”.

“Io sono una delle ultime costrette a mollare. Tutte le mie amiche che hanno avuto un incarico a scuola tra il Veneto e la Lombardia – rivela –  sono tornate appena si è diffuso la notizia del Coronavirus in quelle regioni, anche prima che venisse decisa la chiusura delle strutture. E i controlli sono stati fatti in maniera schizofrenica. Quelle che sono rientrate in Molise dopo avere lavorato in Veneto sono state messe subito in quarantena. Lo stesso non è successo altre regioni, compresa la nostra. Devo dire che giorni fa, quando i governatori del Nord avevano chiesto la quarantena di tutti coloro che tornavano dalla Cina, per una volta mi hanno trovato d’accordo. Non ci ho visto nessuna forma di razzismo, solo buon senso, per evitare quello che sta succedendo adesso, panico e incertezza”.

“Quel che posso affermare in base alla mia esperienza – continua Giusy – oltre a confermare quel che non è uno stereotipo, cioè che in Veneto la gente è molto chiusa di suo, è che a scuola i bambini parlavano di Coronavirus da tempi non sospetti. Pochi giorni prima di tornare, ho preso un caffè a Conselve, nel bar più centrale del paese poco distante da Padova, gestito da cinesi, e lì non è una novità che pure i bar lo siano: c’erano solo due signori che mi sono sembrati molto più fatalisti di un meridionale, dicendo, se dobbiamo morire, moriremo. Il Nord è veloce, pragmatico, duro e crudo. Se vali ti premia, a prescindere dalla razza e dall’accento. I bambini sono molto integrati, nessun episodio di razzismo tra loro, nemmeno adesso che alcuni hanno voluto soffiare sulla vergognosa caccia all’untore cinese”.

Un murale di Kenny Random, street artist padovano

“Però – sottolinea Giusy – devo anche dire che, per quanto riguarda l’ambito scolastico, che noi docenti non abbiamo avuto alcun tipo di comunicazione, quando è scattato l’allarme, né a livello preventivo, precauzionale né sulle misure d’emergenza”.

La storia di Giusy è quella di migliaia di siciliani come lei. Soprattutto di quelli caparbi, decisi, che credono in loro stessi. “Hanno chiuso le scuole anche a Padova e quindi non ho potuto fare altro che tornare. Sarei rimasto fino al termine degli impegni presi, cioè giugno, quando mi sarebbe scaduto il contratto. No, non sarei tornata indietro per paura del contagio. Perchè un Siciliano non è uno che si lascia debiti e cose non concluse indietro. Perchè non è vero che non abbiamo voglia di lavorare. Perchè nonostante il Nord sia grigio, malinconico e asettico ci da quello che avremmo voluto avere nella nostra città.
La dignità di avere riconosciuto il proprio talento nel fare qualcosa ricevendo il giusto compenso. Il lavoro come diritto. Il lavoratore come risorsa. Senza dire grazie a nessuno”.

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