Nunzio La Torre se ne fregava. Era ai domiciliari, ma agiva come se fosse libero, come se non fosse stato arrestato e condannato alla reclusione.

Nunzio La Torre una volta insegnava ad aggredire il pallone, le aree avversarie, quando era un promettente attaccante, quello che Massimo Cellino volle a Cagliari, nella stagione di serie A ’93/’94, dove fra i compagni di squadra aveva quel Massimiliano Allegri che poi diventerà uno dei tecnici più medagliati della Juventus.

Tutt’altro il destino che si è tracciato La Torre, che non riuscì a sfruttare quell’occasione per accomodarsi nell’Olimpo del calcio italiano, per poi tornare nella sua Catania, dove indosserà la maglia rossazzurra, dove, quando appenderà le scarpette al chiodo, quella maglia infangherà, diventando elemento del substrato criminale etneo.

Oggi, quindi, il 46enne La Torre insegna altro. Insegna che perdersi in una città così come Catania, dove i confini sono labili, dove se si frequentano le zone sbagliate, le amicizie sbagliate, rompere il diaframma che separa la dimensione della legalità da quella dell’illegalità è un attimo, basta poggiarsi.

E insegna che certi dispositivi giuridici sono distaccati dalla realtà in cui vengono applicati, inutili, buoni soltanto a triplicare gli sforzi delle forze dell’ordine nel vigilare, nell’arginare la criminalità, vanificando, a volte, spesso, i brillanti esiti delle operazioni.

I domiciliari sono un premio, un favore, uno sprone, per i delinquenti. Se la ridono quando evitano il carcere. Lo hanno denunciato più volte i rappresentanti sindacali degli agenti della Questura di Catania, su tutti il Siap, il Sindacato autonomo appartenenti polizia; lo dimostra l’ennesimo caso, quello documentato dalle intercettazioni video, che hanno beccato La Torre evadere serenamente dai domiciliari per andare a rimproverare due spacciatori a lui sottoposti perché stavano battendo la fiacca.

Nel video fornito dalla polizia si vede La Torre che va a scovare i dipendenti indolenti e li ricaccia sulla strada a fare quel per cui sono pagati, vendere la droga.

Arrestato, recluso nella sua abitazione, ma agiva così come meglio credeva, alla faccia delle divise, delle toghe, che fanno quel che prevedono le leggi, che fanno quel che decide il Parlamento, quel che chi governa non capisce o fa finta di non capire.

Non si combatte con il fioretto la guerra e Catania è in guerra da sempre.

La Torre, secondo la Procura di Catania gestiva la piazza di spaccio del Tondicello della Playa, la zona dove due settimane fa sono stati aggrediti 5 agenti da 20 delinquenti che, pestando i poliziotti e danneggiando due volanti, hanno cercato, invano, di fare sfuggire all’arresto un giovane pusher.

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La gestiva per conto della mafia, del clan Cappello Bonaccorsi. 25, in tutto, gli arrestati, che sguazzavano nella marijuana e nella cocaina che garantiva loro un un giro di affari quotidiano di 7/8mila euro, 210/240mila euro al mese.

Fiumi erba e coca che alimentavano mari di denaro. Da un lato i delinquenti, dall’altro gli acquirenti, i drogati, di tutti gli strati sociali, perfettamente amalgamati dalla stessa melma.

La stessa che dilaga nelle altre piazze catanesi, sempre più arroccate, sempre più arroganti, dove sta manifestandosi con inquietante strafottenza quel feudalismo criminale che fa credere a chi fa parte o simpatizza per i clan di essere al di sopra della legge, padroni del territorio dove sono nati, dove vivono, e guai a chi ne viola la routine.

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Durante le perquisizioni nelle abitazioni degli indagati sono state trovate, fra le altre cose, una pistola con la canna e l’impugnatura parzialmente ricoperte d’oro e un’altra con madreperla, la riproduzione di un fucile Kalashnikov in legno ricoperto di brillanti, oltre alla foto incorniciata dell’attore Al Pacino che interpreta il film Scarface.

Scarface a mò di santino, come se fosse un’icona votiva.

No, non si combatte con il fioretto la guerra e Catania è in guerra da sempre.

 

 

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